venerdì 8 aprile 2016

SETTE ISOLE SETTE OCEANI




Titolo: Sette isole Sette oceani - Il Bhūmiparvan: Geografia, miti e misteri nel Mahabharata
Traduzione di Pietro Chierichetti

ISBN: 9788899668006; Pagine: 140

Formato: brossura
Casa Editrice ESTER

Prezzo: € 16,00  - Antiche Realtà del Sacro

Descrizione: Il Bhūmiparvan è uno dei più interessanti capitoli dell’immenso poema epico indiano Mahābhārata, dedicato alla guerra tra i Pāndava e i Kaurava, due famiglie di cugini che si sfidano per il dominio sul mondo.
Sul nucleo fondante della vicenda bellica la narrazione offre miriadi di storie di insegnamento, secondo la tipica proliferazione narrativa e didascalica della tradizione letteraria indiana.
Nei due capitoli che costituiscono il Bhūmiparvan, “il libro della terra”, per la prima volta tradotto in italiano dall’originale sanscrito, il cocchiere Sajaya offre al proprio sovrano, l’imperatore Dh tāraṣṭra, una descrizione sommaria del mondo e dell’universo: la geografia presentata è quella della tradizione mitologica indiana dei sette dvīpa, sette isole concentriche alternate a sette favolosi oceani, e descrive montagne sacre, alberi e piante mitiche, popoli misteriosi ed esseri semidivini. Si tratta di una delle fonti più importanti e più antiche della geografia mitica hindū, poi ripresa e sviluppata dalla letteratura dei Purāa, dalla cosmografia buddista e giainista.
Al lettore è offerto uno sguardo su un mondo fascinoso fatto di monti straordinari come il sacro Meru, fiumi sacri come il Gange e mitici abitatori immortali e perfetti, un viaggio attraverso luoghi paradisiaci di una perenne Età dell’Oro.
La descrizione mitica risponde così a esigenze non tanto meramente geografiche quanto invece a conoscenze mitologiche, religiose e mistiche. Un sapere misterioso che è l’ennesima straordinaria suggestione offerta dalla civiltà dell’India antica e che ha avuto un’influenza determinante su molte geografie fantastiche di altre civiltà.

Traduttore: Pietro Chierichetti (Abbiategrasso 1978) è laureato in Lettere Moderne presso l’Università degli Studi di Milano e in Scienze delle Religioni presso l’Università degli Studi di Torino. Ha conseguito il Dottorato in Studi Euro-Asiatici (Indirizzo Indologico e Tibetologico) presso la Scuola di Dottorato in Studi Umanistici dell’Università di Torino. Ha tradotto per la prima volta dall’originale sanscrito in italiano l’Abhinayadarpaa di Nandikeśvara ed è autore di numerose pubblicazioni in italiano e in inglese dedicate alla ritualistica dell’India antica. Ha tenuto svariate conferenze dedicate alle culture religiose dell’India nelle università italiane e presso altre istituzioni. I suoi principali interessi di studio includono la religiosità vedica e hindū in generale, le pratiche ritualistiche dell’India antica, la cosmografia e il teatro-danza in India attraverso le fonti sanscrite. Attualmente lavora come docente presso la scuola secondaria di I grado di Rosate (MI).


La collana «Antiche realtà del Sacro», curata da Ezio Albrile, si propone di fornire a un vasto pubblico gli strumenti per approfondire la conoscenza e lo studio delle più antiche tradizioni religiose. Le parole dei fondatori e le mitologie sono restituite nella loro formulazione originaria anche grazie all’aiuto della moderna ricerca storico-religiosa. Un tentativo per capire cosa la fede, individuale o collettiva, abbia «veramente detto».

venerdì 11 dicembre 2015

ZOROASTRO E LE ROSE


Alla ricerca di una tipologia profetica




   di Ezio Albrile

     La metafisica della Luce è un’attitudine speculativa che trae origine da antichi miti solari indo-iranici, ampiamente diffusi nel mondo ellenistico e vicino-orientale. La Luce in questi miti[1] è intesa quale emanazione dello αỉθήρdetto anche πέμπτον σῶμα πέμπτον στοιχεῖον πέμπτη οὐσία; l’ultima espressione, destinata a diventar celebre, è attribuita da Olimpiodoro a Pitagora, il quale καὶ τὸν αỉθήρα ἐκ τῆς πέμπτες ἒλεγε γίνεσθαι οὐσίας [2]. La Luce è la quintessenza eterea e divina del cielo e degli astri, particolarmente del Sole. Il Sole, venerato quale dio fra gli altri dèi del firmamento, diventa il Dio supremo, Ahura Mazda o Zeus Oromasdes, il principio luminoso da cui sgorga la vita, di cui Cicerone dirà: Dux et princeps, et moderator luminum reliquorum mens mundi et temperatio tanta magnitudine ut cuncta sua luce lustret et compleat [3]. A proposito di queste parole Macrobio, nel «Commentario al sogno di Scipione», informa quem Heraclitus fontem caelestis lucis appellat [4]. D’altronde poche righe prima Macrobio, parlando della quintessenza luminosa – sostanza base dell’anima in Critolao ed Eraclide Pontico –, asserisce che secondo Eraclito essa sarebbe una frazione, una scintilla stellaris essentiae [5].
     Autorevoli studi hanno messo in relazione la dottrina fotica di Eraclito con le fonti iraniche[6], in particolare con l’elemento igneo caro al Dio supremo Ahura Mazda ed al suo profeta Zoroastro. Gli albori della filosofia greca affonderebbero le proprie radici ispirative[7], se non proprio ideologiche, nel mondo speculativo e letterario del mazdeismo zoroastriano. Una situazione che si è riproposta, secoli più tardi, con il fenomeno «ecumenico» dei cosiddetti magousaoi, i «Magi ellenizzati» di Cumont.
     Una testimonianza in questo senso è offerta da un autore vissuto a cavallo tra il VI ed il VII sec. d.C., Cassiano Basso, artefice di una silloge che in origine compendiava le opere di agricoltura di Anatolio di Berito e Didimo il Giovane di Alessandria, a noi pervenuta in una rielaborazione bizantina sotto il nome di Geoponica[8]. Il testo, in cui l’autorità di Zoroastro è sovente evocata[9], riveste un grande interesse, poiché le metafore botaniche e floreali rivelano importanti fonti mitografiche. È il caso di Zoroastro le cui facoltà visive sono strettamente connesse ai fiori di rosa:
Ζωροάστρης δὲ λέγει, ἐπὶ ἐνιαυτὸν ἓνα μὴ ἀλγεῖν τοὺς ὀφθαλμούς, τὸν ἐν πρώτοις ἰδόντα ἐπὶ τοῦ φυτοῦ μεμυκυίας κάλυκας, καὶ τρισὶν ἐξ αὐτῶν ἀπομαξάμενον τὰ ὄμματα, καὶ ἐπὶ τοῦ φυτοῦ τὰ ῥόδα καταλιπόντα [10].
     La tradizione, antica e ben attestata, persiste nel mondo medievale: Angelo De Gubernatis, nella sua arcaica e splendida ricerca sulla mitografia vegetale, trascrive una leggenda che egli classifica come «hindostana», in realtà frutto della mitopoiesi neopersiana, dal titolo «La Rosa di Bakawali»[11]. Il racconto parla di una rosa, dimorante «nella regione del Sole», capace di restituire la vista ai ciechi. Lo stesso Sole è ritenuto una «rosa rossa». Il fiore miracoloso prospera in uno specchio d’acqua adamantino, al centro del giardino del figlio del Re delle Fate Bakawali. Il legame tra la rosa ed il fluire delle acque, metafora per il promanare del soave profumo, appartiene ad un retaggio etimologico classico, forse neoplatonico.
 Uno scholium a Teocrito trascrive una ipotetica etimologia di ῥόδον, «rosa», a partire dal verbo ἀπορρεῖν, «scorrere, fluire, emanare» (il termine è tecnico nel neoplatonismo, in cui designa i gradi dell’essere scaturiti dall’Uno), e dall’aggettivo ῥόώδης, «agitato dalle onde, solcato dalle correnti»:
ῥόδον παρὰ τὸ ξᾶττον ἀπορρεῖν ῥόῶδες γὰρ ἐστὶν ἤτοι συντόμως φθειρόμενον ἢ < ἀπο τοῦ ῥεῖν > ἀπ’ αὐτοῦ τὴν ὀδμὴν ἢ ἀπο τοῦ ὄξω [12].
     Il depotenziarsi del profumo emanato dal fiore è immagine, figurazione dello scorrere e del mutare di ogni cosa sottoposta a dissoluzione, in balìa dei flussi mareali, origine e cangiamento del tutto.
I termini iranici che designano la rosa e più in generale i fiori (neopersiano gol, medio-persiano gul, partico wr, sogdiano wrδ, avestico varƏδa-) sono relati al greco ῥόδον ed al latino rosa, ma non hanno una comune origine indo-europea[13]. Ipotesi attendibili vedono la parola legata alla civiltà mediterranea e ad un probabile influsso semitico, dal momento che forme verbali simili si ritrovano nell’accadico wurtinnu, nell’ebraico ward, nell’armaico e siriaco wardā, nell’arabo ward e nel logogramma WLTA (*WRTA), che nei testi in pahlawi indica la parola gul, «rosa»[14].
     Coltivata in un’ampia area geografica, la rosa è un’ossessione ricorrente nella mistica persiana[15], immagine dell’eros sublimato a contemplazione estatica. Un’idea remota: il Bundahišn decanta la rosa (gul) come uno dei fiori più profumati; in modo specifico la gul ī sad-warg, la «rosa dai cento petali» (= Rosa centifolia)[16], è intesa quale manifestazione divina della dēn (< daēnā)[17], l’Anima individuale e collettiva[18] la cui epifania fascinosa nel post mortem viene costruita in vita attraverso la pratica del retto pensare, del retto parlare e del retto agire, ed è quindi lo strumento supremo nella percezione delle realtà ultime[19].
     Nella letteratura del mazdeismo zoroastriano la bellezza della dēn è prerogativa del giusto, dell’ardāwān (< ašavan)[20], l’iniziato che accede ad una condizione di esistenza peculiare, non mista e separata dalla εἱμαρμένη. Questa condizione è forse celebrata nella liturgia manichea testimoniata in una sequenza polemica e demonologica del Ginzā, il testo centrale dei Mandei, un’antica comunità gnostico-aramaica, intersezione di motivi culturali iranico-mesopotamici. Secondo questo scritto dei presunti Manichei indosserebbero diademi e si cospargerebbero di rose (uardia labšia uuardia mikasin)[21]: il colore racchiuso nei fiori è manifestazione visibile della Luce intrappolata nella ὕλη [22]. Il rito ha un riscontro in un testo manicheo partico in cui la rosa (wār) è immagine dell’ardāwān, l’eletto manicheo:
ud wār[w]ižīdag kišt [pad bōδes]tān
isprahmžār huzargōn ud pusag
wišmināg padīž tō žāmād
«e piantai la rosa eletta nel giardino,
nel luogo fiorito, e un diadema
gioioso ho posto innanzi a te»[23].
     La figurazione dell’eletto nel fiore mistico per eccellenza ci riconduce ad un’area di significati connessi alla visione interiore ed all’estasi illuminativa.
     In un suggestivo studio di qualche anno fa, dedicato all’analisi della daēnā, il professor Gherardo Gnoli, dopo aver passato in rassegna varie interpretazioni[24], ha rivisitato le linee essenziali dell’ermeneutica proposta dal Nyberg[25], collegando la nozione di daēnā con l’avestico day-, «vedere»[26], termine che a sua volta si riallaccia alla nozione vedica della dhi, la «visione, illuminazione». Gnoli si è ancora riferito ai magistrali studi di Antonino Pagliaro, che per parte sua ha chiarito lo sviluppo semantico di daēnā da day-, riferendosi al greco εδος ed al latino species, termini che abbracciano una serie di significati che vanno da quello di «immagine, forma», a quello di «modello, tipo, genere», e poi di «natura, essenza», in riferimento alla realtà spirituale dell’uomo[27]. L’indagine sulla daēnā, recentemente ripresa e approfondita da Andrea Piras sulla base di una cospicua documentazione bibliografica[28], assume tutto il suo significato nell’ambito delle concezioni indo-iraniche sulla visione interiore[29]. Per mezzo suo l’uomo può conoscere (daēnayā vaēdƏmnō)[30], per mezzo suo si compiono la scelta iniziale e le azioni che salveranno o perderanno chi le compie[31]: a buoni pensieri, buone parole, buone azioni, corrisponde una buona daēnā. Perciò al giusto essa verrà incontro nel post mortem, come narrato nell’Hādōxt Nask[32], nelle sembianze di una fanciulla, per aiutarlo ad attraversare il ponte Cinvat[33], il ponte situato sia sul cammino dei morti che su quello degli iniziati alla disciplina della visione, e che solo gli ardāwān (< ašavan), i «giusti» – morti o vivi – riescono ad attraversare[34]. Fonte di «sapienza innata» (āsn-xrat) o di «visione animica» (gyān-wēnišn), quindi di potere conoscitivo e trasmutativo, la dēn < daēnā è anche identificata come un principio creativo immanente – come la «visione» (dhi) vedica[35] – e per questo viene riconosciuta come uno dei tre «creatori»[36] collaboratori di Ohrmazd[37]; non solo, ma la daēnā si identifica anche con la volontà di Ohrmazd (wēh dēī āī Ohrmazd kām)[38].
     La daēnā è spesso associata ad altri termini che coinvolgono la sfera animica[39]; ciò è più che naturale, visto lo strettissimo legame esistente tra la daēnā ed i vari aspetti dell’interiorità umana da un lato, e le concezioni indo-iraniche sulla visione mentale dall’altro. Plausibili quindi le conclusioni del professor Gherardo Gnoli, che precisano il senso individuale della daēnā, espressione tanto della facoltà immaginativa dell’uomo, quanto dell’oggetto in cui essa di volta in volta si manifesta[40]. Tale facoltà è considerata creativa e realizzatrice, una coscienza visionaria raggiungibile attraverso la disciplina spirituale, nella quale è implicita una liberazione della parte animica nei confronti della corporeità. Non si deve dimenticare che proprio il pensiero è lo strumento della creazione nella letteratura del mazdeismo zoroastriano: nei testi pahlawi si parla non a caso di una sorta di «immaginazione creatrice», di un «pensiero creatore» (mēnišī dādārihā) e della necessità che la via che porta dalla «volontà» o «forza vitale» (axw) al pensiero sia perfetta e pura, affinché si manifesti la «visione spirituale» (mēnōg-wēnišnīg).
     Se nella tradizione iranica tutta questa congerie di fatti e testimonianze permette di capire il legame tra l’immagine della rosa e l’ambito della visione mentale, l’iniziazione isiaca narrata da Apuleio nelle sue Metamorfosi vede in questo fiore il primo segno nella trasmutazione dell’adepto. Lucio – protagonista del romanzo apuleiano – da asino ridiventa uomo divorando una «ghirlanda intrecciata di splendide rose»[41] che lo ierofante della dea Iside porta in processione avvolta attorno al sistro. Il roseto, aggiunge Apuleio, è figura dell’uomo rigenerato come la rugiada è il simbolo della rigenerazione. Il sincretismo isiaco della tarda antichità trascrive nell’immagine della rosa un anelito trasformativo, anch’esso legato al mondo della percezione mentale. Non a caso il culmine dell’esperienza iniziatica è annunciato da una visione interiore, l’apparizione in riva al mare di Iside[42], la lucente dea che preconizza all’iniziato: Nam meo monitu sacerdos in ipso procinctu pompae roseam manu dextera sistro cohaerentem gestabit coronam[43].
     Nel mondo greco la rosa è fiore consacrato alla dea Afrodite. Secondo la narrazione, quando Afrodite nacque dalla spuma del mare, dalle onde spuntò anche un cespuglio coperto di spine nel quale gli dèi fecero stillare gocce di ambrosia, che si trasformarono in candidi boccioli. Da bianche le rose divennero purpuree quando Afrodite, accorrendo in aiuto di Adonis sopraffatto da un cinghiale, si ferì ad un piede maculando i fiori con il proprio sangue. L’elogio funebre di Adonis vergato dal bucolico Bione narra che Afrodite versò tante lacrime quante furono le gocce di sangue versate da Adonis morente: da ogni lacrima nacque una rosa, da ogni goccia di sangue un anemone[44].
Il legame peculiare tra fiori e sangue, e segnatamente tra rose e sangue, è un tratto mitografico saliente rivisitato dallo gnosticismo ellenistico, nel cui alveo confluiscono materiali simbolici comuni all’ermetismo, alla magia ed alla mistica alchemica[45].
     Un testo gnostico proveniente dalla biblioteca copta di Nag-Hammadi, lo Scriptum sine titulo, conosciuto anche come «Trattato sull’origine del mondo»[46], narra dello ᾽Αρχιγεντωρ Yaldabaoth sedotto e colmo di vergogna di fronte alla Luce proveniente dall’Ogdoade superiore[47]: nella Luce a poco a poco si delinea una splendida «forma» (eine < *εδος) umana, invisibile a tutti tranne che allo ᾽Αρχιγεντωρ ed alla sua compagna, il «primo pensiero», la Pronoia. In seguito anche tutte le δυνάμεις popolanti lo spazio celeste avvertono con eccitazione la presenza di questa entità luminosa[48]. Ma la situazione si sviluppa ulteriormente:
     «…Quando la Pronoia vide l’Angelo si riempì d’amore (asmeritef < *ἐρᾶν) per lui; ma lui la detestava poiché ella era nella Tenebra. E lei anelava l’unione (ačolğes emmof < *περιπλέκλειν), senza riuscirvi. Incapace di limitare (telčo < *παύειν) la sua passione amorosa, ella effuse la propria Luce sulla terra. Da quel giorno quell’Angelo fu chiamato Adamo-Luce (Adam enouoein), il cui significato (ouōem < *σύγκρισις) è “l’uomo-di-sangue-luminoso”; e la terra si distese su di lui puro *Adamas (> adaman = ebr. adāmāh, terra) il cui significato è “terra-pura-adamantina”. Da quel giorno, tutte le forze venerarono il sangue della vergine. E dal sangue della vergine la terra fu purificata…»[49].
     Siamo qui in presenza di una tipica speculazione della mitologia gnostica, in cui il processo cosmogonico scaturisce dalla sostanza divina caduta ed imprigionata nel mondo della materia sotto forma di simbolo luminoso[50]. La vita scaturisce dal «sangue della vergine», che caduto in basso purifica e feconda l’intera natura. Il trattato gnostico insiste sulla pluralità dei significati connessi ai termini ebraici adām = uomo, dām = sangue, ādōm = rosso e adāmāh = terra, da cui la concezione di Adamo come «Uomo-di-sangue-luminoso»[51]. Tenendo conto della corrispondenza ᾽Αδάμ = γῆ, la definizione di *ἀδάμας, «ferro durissimo, acciaio», appare come la forma grecizzata dell’ebraico adāmāh, «terra», da cui l’aggettivo ἀδαμάντινος, «indomito, tenace, fermo»[52], che spiega l’espressione «terra-pura-adamantina»[53]; plausibile, come ha intuito il professor Gilles Quispel, anche il legame con l’epressione omerica πάρθενος δμης[54], «vergine indomita».
     L’allusione al sangue in questo contesto assume così un significato tangibile e concreto: esprime cioè i πάθε  della Pronoia, la quale assume la fisionomia di una divinità misterica la cui «crisi mitica» è definita in rapporto al sangue, manifestazione visibile del suo stato virginale. Il sangue ha in sé un valore ed una funzione ambivalenti: esso è sì frutto di una esperienza dolorosa, ma per i riflessi luminosi di cui è rimasto pregno trasmette in ogni caso al mondo della natura e della ὕλη i bagliori e le scintille dell’originaria purezza proveniente dal mondo pleromatico[55]. Difatti da questo «sangue primigenio» (pisnof enšorp) nasce Eros androgino[56], la cui duplice natura[57] è all’origine della antinomia sessuale perpetuata nel ciclo della generazione e della corruzione, inevitabile e tragico susseguirsi di creazione e distruzione[58]. Dopo l’epifania di Eros, dal sangue sparso sulla terra germinò (ti ouō) la vite, evento cosmogonico che spiega l’effetto inebriante del vino quale causa del «desiderio dell’amplesso» (tepithymia entsynousia <ἡ ἐπιθυμία τῆς συνουσίας)[59]. In seguito crebbero altri alberi, il primo dei quali è la pianta di fico, seguita dal melograno. Il testo prosegue descrivendo il Paradiso creato dalla δικαιοσύνη ad Oriente, in una modalità di esistenza lontana, separata dai κύκλοι del Sole e della Luna: lì, a settentrione (empsamit < *ἐὶς βορέαν)[60] crescono rigogliosi l’Albero della Vita, simile al Sole e dai frutti splendenti come grappoli d’uva, e l’Albero della Gnosi, simile alla Luna e dalle foglie simili a quelle della pianta di fico.
     I primi alberi germinati dal sangue effuso sulla terra sono dunque morfologicamente affini agli alberi che prosperano in Paradiso, strumenti nel compiersi di un disegno cosmico, anche se casuale ed affidato alle vicissitudini della εἱμαρμένη. Chiude la rassegna degli arbusti sorti dal sangue della Pronoia la pianta dell’ulivo, il τὸ  ἄγιον ἔλαιον [61] manifestato dalla Luce dell’Adamo primigenio che santificherà i re ed i sommi sacerdoti nei tempi escatologici[62].
     Ora, la situazione iniziale vissuta nel mondo celeste dalla Pronoia, ricolma di passione per l’Adamo-Luce, si ripropone nel mondo somatico: l’Anima primigenia s’innamorò di Eros e la parte femminile di Eros amò se stessa spargendo il proprio sangue sulla terra. Quel sangue luminoso irrorando il roveto provocò lo sbocciare dei fiori di rosa[63]: la rosa, coagulazione di una scintilla pleromatica, rappresenta quindi il sigillo della creazione, l’ultima fase del processo cosmogonico[64].
Svariati sono gli episodi del mito classico in cui il sangue rivela poteri fecondanti e cosmogonici. Uno dei più celebri e antichi è il racconto di Esiodo su Kronos eviratore del padre Urano: il sangue sgorgante dalla ferita così prodotta cade sulla terra, facendone nascere le Erinni, i Giganti, le Ninfe dei frassini e le divinità delle piante[65]. Polidoro, figlio di Priamo, profugo da Troia, viene tradito e ucciso dall’infame Polimestore; è seppellito sulle coste della Tracia e nella sua tomba si imbatte Enea, che allestisce un altare e taglia alcuni ramoscelli da un albero per ornare il luogo del sacrificio. Allora «la prima pianta che dal suolo, allo spezzar delle radici, si svelle, questa di scuro sangue stilla le gocce e di veleno macchia la terra»[66]. I rami sono infatti spuntati dai giavellotti che avevano trafitto il corpo dell’infelice eroe. Dalla terra rorida del sangue di Narciso spunta il fiore omonimo[67]; dal sangue della Gorgone uccisa da Perseo fuoriescono il cavallo alato Pegaso e Crisaore, l’«Uomo dalla spada d’oro»[68]; dal sangue di Side, l’eroina che per sfuggire alle insidie del padre si uccide sulla tomba della propria madre, nasce la pianta di melograno, dai frutti colmi di semi del color del sangue. Platone in Crizia 120a-b racconta che nella favolosa isola di Atlantide i sovrani che regnavano su ciascuna delle dieci regioni in cui essa era suddivisa si riunivano per una particolare cerimonia, nel corso della quale si svolgeva una caccia al toro; successivamente il sangue dell’animale sgozzato veniva bevuto da tutti i presenti, in una specie di comunione rituale.
     Tutti questi ambiti mitografici sfiorano solo il problema del legame simbolico tra sangue, rose, Luce e mondo della visione interiore nel nostro testo gnostico, una tematica a suo tempo più o meno consapevolmente ripresa nelle sequenze finali del Faust di Goethe: in mezzo ai vaneggiamenti di Mefistofele un coro di Angeli avanza spargendo rose, «luminose rose» che effondono il loro profumo, quasi a liberare lo splendore in esse racchiuso[69]. Le rose nel poema di Goethe «recano il paradiso», stigma della sconfitta di Mefistofele e di un conseguimento celestiale che parla un linguaggio vero e visionario nell’«etere limpido» attraverso l’eternità dei mondi[70].
L’argomento profetologico ha quindi una funzione centrale in questo contesto: la rosa, simbolo ematico nel quale è celata la Luce iniziale, è anche il dono carismatico con cui raggiungere l’universo della visione interiore. Le rose dello Zoroastro «geoponico» effigiano il risveglio palingenetico, la Luce permeante la mente del Profeta eletto. Una situazione per certi versi analoga, dove alle rose si sono sostituiti i rubini, si ripresenta nelle tradizioni legate a Khir, una figura chiave della profetologia islamica[71].
     Dal sincretismo islamico-indico deriva il ciclo leggendario del principe Mabūb, singolare personaggio legato alla manifestazione di Khir. Uno di questi racconti – riportato da Simone Cristoforetti – narra di Mabūb che, tuffatosi nel mare, vi scopre fluttuare un fiume di rubini. Risalendo la corrente giunge ad un magnifico giardino, nel quale si erge un grande palazzo. In una stanza dell’edificio egli vede le gocce di sangue che stillano da una testa mozzata trasformarsi in rubini, gli stessi che attraverso un condotto sotterraneo raggiungono il mare. Dodici perī, le parīg, le «streghe» o «fate», esseri sovrannaturali delle tradizioni medio-persiane, riuniscono la testa al corpo decapitato e danzando provocano una epifania luminosa; allora sorge dal pavimento Khir, avvolto in una veste di splendore[72]. Khir sembra in qualche modo effigiare l’unione di due differenti motivi gnostici: il primo è l’idea d'un ᾽Αρχάνθρωπος originario, l’Anima luminosa frantumata nei singoli
σώματα, mentre il secondo è l’immagine dell’Adamo-Luce (maschile o femminile a seconda dei casi) che suscita l’amore e la concupiscenza nelle potenze archontiche; il desiderio luminoso effuso dalle potenze oscure genera, in differenti modalità di esistenza, differenti ordini di realtà. Così Eros, creatura androgina, rappresenta un primo allontanamento dalle vicende mitiche del πλήρωμα iniziale: nato dal desiderio della Pronoia sparso sulla terra, Eros affiora come Khir dal sottosuolo e sarà a sua volta al centro di una vicenda di caduta.
     La gemma, come il fiore, racchiude la potenza del sangue, cioè il potere luminoso e profetico. Questo simbolismo, che esprime efficacemente la teoria gnostica, secondo cui l’Anima è essenza divina decaduta e racchiusa in modalità e gradi di perfezione diversi nella κτίσις malvagia, nel caso delle tradizioni su Zoroastro e Khir diventa il segno dell’investitura e della facoltà profetiche, in una prospettiva che oggi definiremmo «politica»[73].


[1] Cfr. B. Nardi, «Luce», in Aa.Vv., Dizionario delle Idee, Firenze 1977, pp. 647a-649a.
[2] Cfr. Olympiod. Meteor. 45, 24 (trad. A. Maddalena, in G. Giannantoni, I Presocratici. Testimonianze e frammenti, I, Roma-Bari 19832, p. 451 [42, 5] = H. Diels, Die Fragmente der Vorsokratiker, hrsg. W. Kranz, Berlin 19547).
[3] Rep. VI, 17.
[4] Somn. I, 20, 3.
[5] Ibid. I, 14, 19.
[6] Cfr. J. Duchesne Guillemin, «Fire in Iran and Greece», in East and West, N.S. 12 (1962), pp. 198-206; Id., «Heraclitus and Iran», in History of Religions, 3 (1963), pp. 34-49.
[7] Cfr. M.L. West, La filosofia greca arcaica e l’Oriente, Bologna 1993, pp. 225 ss.
[8] Cfr. G. Pasquali, «Cassiano Basso», in Aa.Vv., Enciclopedia Italiana, IX, Roma 1933, p. 332a.
[9] Cfr. Bidez-Cumont II, pp. 173 ss.
[10] Geopon. XI, 18, 11 (Beckh, pp. 337, 20-338, 1 = Bidez-Cumont II, p. 191).
[11] Cfr. A. De Gubernatis, La mythologie des plantes ou les légendes du règne végétal, II, Paris 1882, p. 319.
[12] Schol. in Theocr. Idyl. V, 93a (Wendel [Stuttgart 1914], p. 174, 13-15); cfr. anche Clem. Alex. Paed. II, 71.
[13] Cfr. H. Alam, «Gol», in E. Yarshater (ed.), Encyclopaedia Iranica, XI, New York 2001, p. 46a.
[14] Cfr. Alam, «Gol», p. 46a; cfr. anche H.S. Nyberg, A Manual of Pahlavi, Part II: Glossary, Wiesbaden 1974, p. 86a (insostenibile la congettura dell’influsso linguistico iranico sul mondo arabo-semitico).
[15] Cfr. ad es. H. Algar, «Golšan-e rāz», in Yarshater (ed.), Encyclopaedia Iranica, XI, pp. 109a-111b.
[16] Cfr. Alam, «Gol», p. 47b.
[17] Cfr. Bundahišn 16, 13 (Anklesaria, pp. 149-153).
[18] Cfr. A. Piras, Hādōxt Nask 2. Il racconto zoroastriano della sorte dell’anima (Serie Orientale Roma LXXXVIII), IsIAO, Roma 2000, p. 90; e prima Gh. Gnoli, «Questioni sull’interpretazione della dottrina gathica», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, N.S. 21 (1971), pp. 361 ss.
[19] Cfr. Piras, Hādōxt Nask, pp. 91 ss.
[20] Cfr. Gh. Gnoli, «Ašavan. Contributo alla studio del libro di Ardā Wirāz», in Gh. Gnoli-A.V. Rossi (cur.), Iranica (Istituto Universitario Orientale – Seminario di Studi Asiatici/ Series Minor, X), Napoli 1979, pp. 387 ss.
[21] Cfr. Ginza iamina IX, 1 (Petermann, p. 225, 11-12; Lidzbarski, p. 226, 23-24).
[22] Cfr. E. Albrile, «Asellus unicornis. Aspetti rituali di un mitologhema “gnostico”», in Henoch, 25 (2003), p. 61.
[23] Mir. Man. III, p. 18 [863] (testo M5 RI 22-26 = «Inno del Parinirvana»); il dr. Andrea Piras mi fa rilevare la differente traduzione di Mary Boyce (Cfr. A Reader in Manichaean Middle Persian and Parthian (Acta Iranica, Textes et Mémoires II/9), Téhéran-Liège 1975, p. 136 [testo ce]), che al posto di wār legge wād = πνεῦμα.
[24] Cfr. Gnoli, «Questioni sull’interpretazione», pp. 361-362.
[25] Cfr. H.S. Nyberg, Die Religionen des alten Iran (Mitteilungen der vorderasiatisch-aegyptischen Gesellschaft, 43. Band), Leipzig 1920, pp. 114 ss.
[26] Cfr. Gnoli, «Questioni sull’interpretazione», p. 362.
[27] Cfr. A. Pagliaro, «L’Idealismo gathico», in Aa.Vv., Samjñāvyākaraam: Studia Indologica Internationalia, I, Poona-Paris 1954, pp. 49-65; Id., «L’idealismo zarathustriano», in Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 33 (1962), p. 15 n. 4; 18 n. 6 (in rif. a Yasna XXXI, 11).
[28] Cfr. Piras, Hādōxt Nask, pp. 90 ss.
[29] Cfr. anche il lavoro di F.-Th. Lankarany, Daēnā im Avesta. Eine semantische Untersuchung (Studien zur Indologie und Iranistik, Beihefte A, Monographien 10), Reinbek 1985, integrato con la recensione e le importantissime precisazioni di Gh. Gnoli in East and West, 35 (1985), pp. 294-296.
[30] Cfr. Yasna LI, 19.
[31] Cfr. M. Molé, «Daēnā, le pont Činvat et l’initiation dans le Mazdéisme», in Revue de l’Histoire des Religions, 157 (1960), p. 163.
[32] Cfr. Piras, Hādōxt Nask, pp. 52 ss.; vd. anche G. Widengren, Iranische Geisteswelt von den Anfängen bis zum Islam, Baden-Baden 1961, pp. 172 ss.; Id., Fenomenologia della religione, Bologna 1984, pp. 688-691.
[33] Cfr. anche A. Panaino, «Figure femminili divine e demoniache nell’Iran antico», in G.L. Prato (cur.), Miti di origine, miti di caduta e presenza del femminino nella loro evoluzione interpretativa, XXXII Settimana Biblica Nazionale (= Ricerche Storico Bibliche, VI: 12), Bologna 1994, p. 61.
[34] Cfr. Gnoli, «Ašavan», pp. 417-419; vd. anche Nyberg, Die Religionen des alten Iran, p. 182., dove leggiamo che «Il Ponte Cinvat è la via del defunto e la via dell’estatico».
[35] Cfr. J. Gonda, The Vision of the Vedic Poets, The Hague 1963, p. 264.
[36] Gli altri due sono lo Spazio (gyāg) e il Tempo (zamān); cfr. il passo del pahlawi Dēnkard (Madan, p. 221, 11 ss.) riportato in R.C. Zaehner, Zurvān. A Zoroastrian Dilemma, p. 385 (testo); 386 (trad.).
[37] Cfr. Zaehner, Zurvān, p. 204.
[38] Cfr. Dēnkard (Madan, p. 31, 10); Gnoli, «Questioni sull’interpretazione», p. 363; Zaehner, Zurvān, p. 144 nota D.
[39] Cfr. Gnoli, «Questioni sull’interpretazione», p. 363; J. Duchesne-Guillemin, «L’homme dans la religion iranienne», in C.J. Bleeker (ed.), Anthropologie religieuse (Numen Suppl. II), Leiden 1955, pp. 93-107; M. Molé, «Daēnā», p. 171; Piras, Hādōxt Nask, pp. 90-92.
[40] Cfr. Gnoli, «Questioni sull’interpretazione», p. 364.
[41] Metam. XI, 13 (Pagliano [Bologna 1982], p. 250).
[42] Ibid., XI, 3-4 (Pagliano, pp. 234-237).
[43] Ibid., XI, 6 (Pagliano, p. 238).
[44] Ep. Adon. I, 6 ss. (= Bucolici graeci, ed. A.S.F. Gow, Oxford 1952, pp. 153-154).
[45] Tematiche recentemente indagate da A. Camplani, «Procedimenti magico-alchemici e discorso filosofico ermetico», in G. Lanata (cur.), Il Tardoantico alle soglie del duemila. Diritto religione società (Atti del Quinto Convegno Nazionale dell’Associazione di Studi Tardoantichi), Pisa 2000, pp. 73-98.
[46] Ho studiato questo scritto nel mio «… in principiis lucem fuisse ac tenebras. Creazione, caduta e rigenerazione spirituale in alcuni testi gnostici», in Annali dell’Istituto Orientale di Napoli, Sezione filologico-letteraria, 17 (1995), pp. 109-155; l’edizione allora utilizzata era quella di A. Böhlig-P. Labib (hrsg.), Die koptisch-gnostische Schrift Ohne Titel aus Codex II von Nag Hammadi im Koptischen Museum zu Alt-Kairo (Deutsche Akademie der Wissenschaften zu Berlin – Institut für Orientforschung – Veröffentlichung Nr. 58), Berlin 1962; ora seguo la più recente edizione di L. Painchaud (avec deux contr. de W.-P. Funk), L’Écrit sans Titre. Traité sur l’origine du monde (NH 2, 5 et XIII, 2 et Brit. Libr. Or. 4926 [1]) (Bibliothèque Copte de Nag Hammadi – Section «Textes» 21), Québec (Canada)-Louvain-Paris 1995.
[47] Or. Mund. II, 108, 2-7 (Painchaud, p. 170).
[48] Ibid. II, 108, 12-14 (p. 170).
[49] Ibid. II, 108, 14-28 (pp. 170-172).
[50] Cfr. G. Mantovani, «Il valore del sangue in alcuni testi gnostici di Nag Hammadi», in F. Vattioni (cur.), Sangue e Antropologia Biblica (Centro Studi Sanguis Christi – 1), I, Roma 1981, p. 143; ed il mio «… in principiis lucem fuisse ac tenebras», p. 112.
[51] Cfr. Painchaud, pp. 352-353 (comm.).
[52] Cfr. anche Hyp. Arch. II, 88,13-14.
[53] Cfr. anche Painchaud, pp. 354-355 (comm.).
[54] Cfr. G. Quispel, «Gnosis and Alchemy. The Tabula Smaragdina», in R. van den Broek-C. van Heertum (eds.), From Poimandres to Jacob Böhme: Gnosis, Hermetism and the Christian Tradition, Amsterdam 2000, p. 315.
[55] Cfr. Mantovani, «Il valore del sangue», p. 144.
[56] Per maggiori ragguagli sull’androginia di Eros cfr. M. Tardieu, Trois mythes gnostiques. Adam, Eros et les animaux d’Egypte dans un écrit de Nag Hammadi (II, 5), Paris 1974, pp. 144-157, un grande lavoro incomprensibilmente vissuto in una dimensione strutturalista.
[57] Spiegata nella duplice denoninazione rispettivamente maschile e femminile di imireris (<
Ἱμέρος, «passione, desiderio», personaggio al seguito di Afrodite in Hesiod. Theog. 201) cioè «un fuoco che viene dalla Luce» (cfr. Apul. Metam. V, 23 [Vitali [Bologna 1984], p. 224]), e di «Anima di sangue» (oupsychē ennsnof), proveniente dall’essenza di Pronoia.
[58] Cfr. Or. Mund. II, 109, 16-28 (Painchaud, p. 174).
[59] Ibid. II, 109, 25 (p. 174).
[60] Cfr. anche Hen. Aeth. V, 25, 5 (Fusella [Milano 1990], p. 93).
[61] Cfr. anche Es. 21, 12.
[62] Cfr. Or. Mund. II, 111, 2 (Painchaud, p. 176).
[63] Ibid. II, 111, 10-15 (p. 178).
[64] Da meditare la circostanza per cui le rose fanno parte dell’immaginario paradisiaco in tradizioni popolari come quelle delle Dolomiti, dove di rose se ne sono viste sempre ben poche; cfr. in partic. U. Kindl, «Le rose contese. Il motivo del “Rosengarten” tra letteratura tedesco-medioevale e tradizione orale ladina», in N. Valeruz-F. Chiocchetti (cur.), L’entità ladina dolomitica. Etnogenesi e Identità, Atti del Convegno interdisciplinare – Vigo di Fassa 11-14 settembre 1996 (= Mondo Ladino, 22 [1998]), Vich- Vigo di Fassa 1998, pp. 335-357.
[65] Theog. 182 ss.
[66] En. III,.27-29.
[67] Cfr. FGrHist I, 197; Ant. Lib. Metam. 23.
[68] Ps.-Apoll. Bibl. II, 4, 2 (42).
[69] Cfr. Faust II, V, 11699 ss. (ed. F. Fortini, Milano 19804, p. 1026); ringrazio per la segnalazione la dr.ssa Emanuela Turri.
[70] Ibid. V, 11731-11734 (Fortini, p. 1028).
[71] Cfr. A.K. Coomaraswamy, «Khwājā Khadir e la Fontana della Vita», in Rivista di Studi Tradizionali, 20-21 (1966), pp. 133-148; M. Perego, Le parole del sufismo. Dizionario della spiritualità islamica, Milano 1998, p. 130b.
[72] Cfr. S. Cristoforetti, «Su Khir, patrono di contaminazioni», in D. Bredi- G. Scarcia (cur.), Ex libris Franco Coslovi (Eurasiatica 40), Venezia 1996, pp. 214-215.
[73] Relazione preparata per l’Incontro di Studio «Potere e religione nel mondo indo-mediterraneo tra ellenismo e tarda antichità», organizzato dalla Società Italiana di Storia delle Religioni (Roma – IsIAO, novembre 2003).

P.S.-  Quest'articolo, senza le accluse illustrazioni, era stato pubblicato nella Riv. 'Studi sull'Oriente Cristiano', N°8, 1, Roma 2004, pp. 5-16.

 
Illustrazioni

1.  Zardust (Zoroastro) sotto il Cipresso, che è insegna dell'Axis Mundi, offre al neo-convertito Shah Gustasp un piccolo cipresso da piantare e sul quale erigere un tempio (da uno Shah Nama di Firdawsi, miniatura persiana, 1330).
2.   Idem, dett.
3.  Zoroastro su Drago con Tre Rose, simbolo della Nigredo, dell'Albedo e della Rubedo (da un testo alchemico del XVII sec.).
4.   Zoroastro, sotto forma di Leone, con Due Rose (da altro testo coevo).

Fonti

1.  L. Binyon-J.V.S. Wilkinson-B.Gray, Persian Miniature Painting, N.York 1971, PLATE XVII. B. 23 (c).
2.  Ibid. 
3.  On line.
4.  On line. 


 Fig.1


  Fig.2

  Fig.3

 Fig.4