Alla ricerca di una tipologia profetica
di Ezio Albrile
La metafisica della Luce è un’attitudine speculativa che
trae origine da antichi miti solari indo-iranici, ampiamente diffusi nel mondo
ellenistico e vicino-orientale. La Luce in questi miti
è intesa quale emanazione
dello αỉθήρ
, detto anche
πέμπτον σῶμα πέμπτον
στοιχεῖον πέμπτη οὐσία; l’ultima espressione, destinata a diventar celebre, è attribuita da Olimpiodoro
a Pitagora, il quale καὶ τὸν αỉθήρα
ἐκ τῆς πέμπτες ἒλεγε γίνεσθαι οὐσίας
. La Luce è la quintessenza
eterea e divina del cielo e degli astri, particolarmente del Sole. Il Sole,
venerato quale dio fra gli altri dèi del firmamento, diventa il Dio supremo,
Ahura Mazd
a o Zeus Oromasdes,
il principio luminoso da cui sgorga la vita, di cui Cicerone dirà:
Dux et princeps, et moderator luminum
reliquorum mens mundi et temperatio tanta magnitudine ut cuncta sua luce
lustret et compleat . A proposito di queste
parole Macrobio, nel «Commentario al sogno di Scipione», informa
quem Heraclitus fontem caelestis lucis
appellat .
D’altronde poche righe prima Macrobio, parlando della quintessenza luminosa –
sostanza base dell’anima in Critolao ed Eraclide Pontico –, asserisce che
secondo Eraclito essa sarebbe una frazione, una scintilla
stellaris essentiae .
Autorevoli studi hanno messo in relazione la dottrina fotica
di Eraclito con le fonti iraniche
, in particolare con
l’elemento igneo caro al Dio supremo Ahura Mazd
a
ed al suo profeta Zoroastro. Gli albori della filosofia greca affonderebbero le
proprie radici ispirative
, se non proprio
ideologiche, nel mondo speculativo e letterario del mazdeismo zoroastriano. Una
situazione che si è riproposta, secoli più tardi, con il fenomeno «ecumenico»
dei cosiddetti
magousa
oi, i «Magi ellenizzati» di
Cumont.
Una testimonianza in questo senso è offerta da un autore
vissuto a cavallo tra il VI ed il VII sec. d.C., Cassiano Basso, artefice di
una silloge che in origine compendiava le opere di agricoltura di Anatolio di
Berito e Didimo il Giovane di Alessandria, a noi pervenuta in una rielaborazione
bizantina sotto il nome di
Geoponica. Il testo, in cui
l’autorità di Zoroastro è sovente evocata
, riveste un grande
interesse, poiché le metafore botaniche e floreali rivelano importanti fonti
mitografiche. È il caso di Zoroastro le cui facoltà visive sono strettamente
connesse ai fiori di rosa:
.
La tradizione, antica e ben attestata, persiste nel mondo
medievale: Angelo De Gubernatis, nella sua arcaica e splendida ricerca sulla
mitografia vegetale, trascrive una leggenda che egli classifica come
«hindostana», in realtà frutto della mitopoiesi neopersiana, dal titolo «La
Rosa di Bakawali»
. Il racconto parla di una
rosa, dimorante «nella regione del Sole», capace di restituire la vista ai
ciechi. Lo stesso Sole è ritenuto una «rosa rossa». Il fiore miracoloso
prospera in uno specchio d’acqua adamantino, al centro del giardino del figlio
del Re delle Fate Bakawali. Il legame tra la rosa ed il fluire delle acque,
metafora per il promanare del soave profumo, appartiene ad un retaggio
etimologico classico, forse neoplatonico.
Uno scholium a Teocrito trascrive una
ipotetica etimologia di ῥόδον, «rosa», a
partire dal verbo ἀπορρεῖν, «scorrere, fluire, emanare» (il termine è tecnico nel neoplatonismo, in cui
designa i gradi dell’essere scaturiti dall’Uno), e dall’aggettivo ῥόώδης, «agitato dalle onde, solcato dalle correnti»:
ῥόδον παρὰ τὸ ξᾶττον ἀπορρεῖν ῥόῶδες γὰρ ἐστὶν ἤτοι συντόμως φθειρόμενον
ἢ < ἀπο τοῦ ῥεῖν > ἀπ’ αὐτοῦ τὴν ὀδμὴν
ἢ ἀπο τοῦ ὄξω
.
Il depotenziarsi del profumo emanato dal fiore è immagine,
figurazione dello scorrere e del mutare di ogni cosa sottoposta a dissoluzione,
in balìa dei flussi mareali, origine e cangiamento del tutto.
I termini iranici che designano la rosa e più in generale i
fiori (neopersiano
gol,
medio-persiano
gul, partico
w᾽r, sogdiano
wrδ, avestico
varƏδa-) sono relati al greco ῥόδον ed al latino
rosa, ma non hanno una comune origine indo-europea
. Ipotesi attendibili
vedono la parola legata alla civiltà mediterranea e ad un probabile influsso
semitico, dal momento che forme verbali simili si ritrovano nell’accadico
wurtinnu, nell’ebraico
ward, nell’armaico e siriaco
wardā, nell’arabo
ward e nel logogramma WLTA (*WRTA), che
nei testi in pahlawi indica la parola
gul,
«rosa»
.
Coltivata in un’ampia area geografica, la rosa è
un’ossessione ricorrente nella mistica persiana
, immagine dell’eros
sublimato a contemplazione estatica. Un’idea remota: il
Bundahišn decanta la rosa (
gul) come uno dei fiori più profumati;
in modo specifico la
gul ī sad-warg, la «rosa dai cento petali» (=
Rosa
centifolia)
,
è intesa quale manifestazione divina della
dēn
(<
daēnā)
, l’Anima individuale e
collettiva
la cui epifania fascinosa nel
post mortem
viene costruita in vita attraverso la pratica del retto pensare, del retto
parlare e del retto agire, ed è quindi lo strumento supremo nella percezione
delle realtà ultime
.
Nella letteratura del mazdeismo zoroastriano la bellezza
della
dēn è prerogativa
del giusto, dell’
ardāwān
(<
ašavan)
, l’iniziato che accede ad
una condizione di esistenza peculiare, non mista e separata dalla εἱμαρμένη. Questa condizione è forse celebrata nella liturgia manichea testimoniata in una
sequenza polemica e demonologica del
Ginzā,
il testo centrale dei Mandei, un’antica comunità gnostico-aramaica,
intersezione di motivi culturali iranico-mesopotamici. Secondo questo scritto
dei presunti Manichei indosserebbero diademi e si cospargerebbero di rose (
uardia labšia u῾uardia
mikasin)
:
il colore racchiuso nei fiori è manifestazione visibile della Luce intrappolata
nella ὕλη
. Il rito ha un riscontro
in un testo manicheo partico in cui la rosa (
wār) è immagine dell’
ardāwān, l’eletto manicheo:
ud wār[w]ižīdag kišt [pad bōδes]tān
isprahmžār huzargōn
ud pusag
wišmināg
padīž tō žāmād
«e piantai la rosa eletta nel
giardino,
nel luogo fiorito, e un diadema
gioioso ho posto innanzi a te»
.
La figurazione dell’eletto nel fiore mistico per eccellenza
ci riconduce ad un’area di significati connessi alla visione interiore ed
all’estasi illuminativa.
In un suggestivo studio di qualche anno fa, dedicato
all’analisi della
daēnā,
il professor Gherardo Gnoli, dopo aver passato in rassegna varie
interpretazioni
,
ha rivisitato le linee essenziali dell’ermeneutica proposta dal Nyberg
, collegando la nozione di
daēnā con l’avestico
day-, «vedere»
, termine che a sua volta
si riallaccia alla nozione vedica della
dhiḥ, la «visione, illuminazione». Gnoli si è ancora riferito ai magistrali studi di
Antonino Pagliaro, che per parte sua ha chiarito lo sviluppo semantico di
daēnā da
day-, riferendosi al greco
εἶδος ed al latino
species, termini che
abbracciano una serie di significati che vanno da quello di «immagine, forma»,
a quello di «modello, tipo, genere», e poi di «natura, essenza», in riferimento
alla realtà spirituale dell’uomo
. L’indagine sulla
daēnā, recentemente
ripresa e approfondita da Andrea Piras sulla base di una cospicua
documentazione bibliografica
, assume tutto il suo
significato nell’ambito delle concezioni indo-iraniche sulla visione interiore
. Per mezzo suo l’uomo può
conoscere (
daēnayā vaēdƏmnō)
, per mezzo suo si
compiono la scelta iniziale e le azioni che salveranno o perderanno chi le
compie
: a buoni pensieri, buone
parole, buone azioni, corrisponde una buona
daēnā.
Perciò al giusto essa verrà incontro nel
post
mortem, come narrato nell’
Hādōxt
Nask,
nelle sembianze di una fanciulla, per aiutarlo ad attraversare il ponte
Cinvat
, il ponte situato sia sul
cammino dei morti che su quello degli iniziati alla disciplina della visione, e
che solo gli
ardāwān
(<
ašavan), i
«giusti» – morti o vivi – riescono ad attraversare
. Fonte di «sapienza
innata» (
āsn-xrat)
o di «visione animica» (
gyān-wēnišn),
quindi di potere conoscitivo e trasmutativo, la
dēn <
daēnā è anche identificata come un principio creativo immanente – come la «visione» (
dhiḥ) vedica
– e per questo viene
riconosciuta come uno dei tre «creatori»
collaboratori di Ohrmazd
; non solo, ma la
daēnā si identifica
anche con la volontà di Ohrmazd (
wēh
dēn ī ān ī Ohrmazd kām)
.
La
daēnā è spesso associata ad altri termini che coinvolgono la sfera animica
; ciò è più che naturale,
visto lo strettissimo legame esistente tra la
daēnā ed i vari aspetti
dell’interiorità umana da un lato, e le concezioni indo-iraniche sulla visione
mentale dall’altro. Plausibili quindi le conclusioni del professor Gherardo
Gnoli, che precisano il senso individuale della
daēnā, espressione tanto della
facoltà immaginativa dell’uomo, quanto dell’oggetto in cui essa di volta in
volta si manifesta
. Tale facoltà è
considerata creativa e realizzatrice, una coscienza visionaria raggiungibile
attraverso la disciplina spirituale, nella quale è implicita una liberazione
della parte animica nei confronti della corporeità. Non si deve dimenticare che
proprio il pensiero è lo strumento della creazione nella letteratura del
mazdeismo zoroastriano: nei testi pahlawi si parla non a caso di una sorta di
«immaginazione creatrice», di un «pensiero creatore» (
mēnišn ī dādārihā)
e della necessità che la via che porta dalla «volontà» o «forza vitale» (
axw) al pensiero sia perfetta e pura,
affinché si manifesti la «visione spirituale» (
mēnōg-wēnišnīg).
Se nella tradizione iranica tutta questa congerie di fatti e
testimonianze permette di capire il legame tra l’immagine della rosa e l’ambito
della visione mentale, l’iniziazione isiaca narrata da Apuleio nelle sue
Metamorfosi vede in questo fiore il
primo segno nella trasmutazione dell’adepto. Lucio – protagonista del romanzo
apuleiano – da asino ridiventa uomo divorando una «ghirlanda intrecciata di
splendide rose»
che lo ierofante della dea Iside porta in processione avvolta attorno al
sistro. Il roseto, aggiunge Apuleio, è figura dell’uomo rigenerato come la
rugiada è il simbolo della rigenerazione. Il sincretismo isiaco della tarda
antichità trascrive nell’immagine della rosa un anelito trasformativo,
anch’esso legato al mondo della percezione mentale. Non a caso il culmine
dell’esperienza iniziatica è annunciato da una visione interiore, l’apparizione
in riva al mare di Iside
, la lucente dea che
preconizza all’iniziato:
Nam meo monitu
sacerdos in ipso procinctu pompae roseam manu dextera sistro cohaerentem
gestabit coronam.
Nel mondo greco la rosa è fiore consacrato alla dea
Afrodite. Secondo la narrazione, quando Afrodite nacque dalla spuma del mare,
dalle onde spuntò anche un cespuglio coperto di spine nel quale gli dèi fecero
stillare gocce di ambrosia, che si trasformarono in candidi boccioli. Da
bianche le rose divennero purpuree quando Afrodite, accorrendo in aiuto di
Adonis sopraffatto da un cinghiale, si ferì ad un piede maculando i fiori con
il proprio sangue. L’elogio funebre di Adonis vergato dal bucolico Bione narra
che Afrodite versò tante lacrime quante furono le gocce di sangue versate da
Adonis morente: da ogni lacrima nacque una rosa, da ogni goccia di sangue un anemone
.
Il legame peculiare tra fiori e sangue, e segnatamente tra
rose e sangue, è un tratto mitografico saliente rivisitato dallo gnosticismo
ellenistico, nel cui alveo confluiscono materiali simbolici comuni
all’ermetismo, alla magia ed alla mistica alchemica
.
Un testo gnostico proveniente dalla biblioteca copta di
Nag-Hammadi, lo
Scriptum sine titulo,
conosciuto anche come «Trattato sull’origine del mondo»
, narra dello
᾽Αρχιγενέτωρ Yaldabaoth sedotto e colmo di vergogna di fronte alla Luce proveniente
dall’Ogdoade superiore
: nella Luce a poco a poco
si delinea una splendida «forma» (
eine
< *
εἶδος) umana, invisibile a tutti tranne che allo
᾽Αρχιγενέτωρ ed alla sua compagna, il «primo pensiero», la Pronoia. In seguito anche tutte
le δυνάμεις popolanti lo spazio celeste avvertono con
eccitazione la presenza di questa entità luminosa
. Ma la situazione si
sviluppa ulteriormente:
«…Quando la Pronoia vide l’Angelo si riempì d’amore (
asmeritef < *
ἐρᾶν)
per lui; ma lui la detestava poiché ella era nella Tenebra. E lei anelava
l’unione (
ačolğes
emmof < *
περιπλέκλειν),
senza riuscirvi. Incapace di limitare (
telčo
< *
πα
ύειν) la sua passione amorosa, ella effuse la
propria Luce sulla terra. Da quel giorno quell’Angelo fu chiamato Adamo-Luce (
Adam enouoein), il cui
significato (
ouōḫem
< *
σύγκρισις) è “l’uomo-di-sangue-luminoso”; e la terra
si distese su di lui puro *Adamas (>
adaman
= ebr.
adāmāh,
terra) il cui significato è “terra-pura-adamantina”. Da quel giorno, tutte le
forze venerarono il sangue della vergine. E dal sangue della vergine la terra
fu purificata…»
.
Siamo qui in presenza di una tipica speculazione della
mitologia gnostica, in cui il processo cosmogonico scaturisce dalla sostanza
divina caduta ed imprigionata nel mondo della materia sotto forma di simbolo
luminoso
.
La vita scaturisce dal «sangue della vergine», che caduto in basso purifica e
feconda l’intera natura. Il trattato gnostico insiste sulla pluralità dei significati
connessi ai termini ebraici
adām
= uomo,
dām = sangue,
ādōm
= rosso e
adāmāh
= terra, da cui la concezione di Adamo come «Uomo-di-sangue-luminoso»
. Tenendo conto della
corrispondenza
᾽Αδάμ
= γῆ, la definizione di *
ἀδάμας,
«ferro durissimo, acciaio», appare come la forma grecizzata dell’ebraico
adāmāh, «terra», da
cui l’aggettivo
ἀδαμάντινος,
«indomito, tenace, fermo»
, che spiega l’espressione
«terra-pura-adamantina»
; plausibile, come ha
intuito il professor Gilles Quispel, anche il legame con l’epressione omerica
πάρθενος
ἄδμης, «vergine indomita».
L’allusione al sangue in questo contesto assume così un
significato tangibile e concreto: esprime cioè i
πάθε della Pronoia, la quale assume la fisionomia di una divinità misterica la cui
«crisi mitica» è definita in rapporto al sangue, manifestazione visibile del
suo stato virginale. Il sangue ha in sé un valore ed una funzione ambivalenti:
esso è sì frutto di una esperienza dolorosa, ma per i riflessi luminosi di cui
è rimasto pregno trasmette in ogni caso al mondo della natura e della ὕλη i bagliori e le scintille dell’originaria
purezza proveniente dal mondo pleromatico
. Difatti da questo
«sangue primigenio» (
pisnof enšorp)
nasce Eros androgino
, la cui duplice natura
è all’origine della
antinomia sessuale perpetuata nel ciclo della generazione e della corruzione,
inevitabile e tragico susseguirsi di creazione e distruzione
. Dopo l’epifania di Eros,
dal sangue sparso sulla terra germinò (
ti
ouō)
la vite, evento cosmogonico che spiega l’effetto inebriante del vino quale
causa del «desiderio dell’amplesso» (
tepithymia
entsynousia <
ἡ ἐπιθυμία
τῆς συνουσίας)
. In seguito crebbero
altri alberi, il primo dei quali è la pianta di fico, seguita dal melograno. Il
testo prosegue descrivendo il Paradiso creato dalla δικαιοσύνη ad Oriente, in una modalità di esistenza lontana, separata dai
κύκλοι del Sole e della Luna: lì, a settentrione (
ḫempsamḫit
< *
ἐὶς βορέαν)
crescono rigogliosi
l’Albero della Vita, simile al Sole e dai frutti splendenti come grappoli
d’uva, e l’Albero della Gnosi, simile alla Luna e dalle foglie simili a quelle
della pianta di fico.
I primi alberi germinati dal sangue effuso sulla terra sono
dunque morfologicamente affini agli alberi che prosperano in Paradiso,
strumenti nel compiersi di un disegno cosmico, anche se casuale ed affidato
alle vicissitudini della
εἱμαρμένη.
Chiude la rassegna degli arbusti sorti dal sangue della Pronoia la pianta
dell’ulivo, il
τὸ ἄγιον ἔλαιον manifestato dalla Luce
dell’Adamo primigenio che santificherà i re ed i sommi sacerdoti nei tempi
escatologici
.
Ora, la situazione iniziale vissuta nel mondo celeste dalla
Pronoia, ricolma di passione per l’Adamo-Luce, si ripropone nel mondo somatico:
l’Anima primigenia s’innamorò di Eros e la parte femminile di Eros amò se
stessa spargendo il proprio sangue sulla terra. Quel sangue luminoso irrorando il
roveto provocò lo sbocciare dei fiori di rosa
: la rosa, coagulazione di
una scintilla pleromatica, rappresenta quindi il sigillo della creazione,
l’ultima fase del processo cosmogonico
.
Svariati sono gli episodi del mito classico in cui il sangue
rivela poteri fecondanti e cosmogonici. Uno dei più celebri e antichi è il
racconto di Esiodo su Kronos eviratore del padre Urano: il sangue sgorgante
dalla ferita così prodotta cade sulla terra, facendone nascere le Erinni, i
Giganti, le Ninfe dei frassini e le divinità delle piante
. Polidoro, figlio di
Priamo, profugo da Troia, viene tradito e ucciso dall’infame Polimestore; è
seppellito sulle coste della Tracia e nella sua tomba si imbatte Enea, che
allestisce un altare e taglia alcuni ramoscelli da un albero per ornare il
luogo del sacrificio. Allora «la prima pianta che dal suolo, allo spezzar delle
radici, si svelle, questa di scuro sangue stilla le gocce e di veleno macchia
la terra»
.
I rami sono infatti spuntati dai giavellotti che avevano trafitto il corpo
dell’infelice eroe. Dalla terra rorida del sangue di Narciso spunta il fiore
omonimo
; dal sangue della Gorgone
uccisa da Perseo fuoriescono il cavallo alato Pegaso e Crisaore, l’«Uomo dalla
spada d’oro»
;
dal sangue di Side, l’eroina che per sfuggire alle insidie del padre si uccide
sulla tomba della propria madre, nasce la pianta di melograno, dai frutti colmi
di semi del color del sangue. Platone in
Crizia
120a-b racconta che nella favolosa isola di Atlantide i sovrani che regnavano
su ciascuna delle dieci regioni in cui essa era suddivisa si riunivano per una
particolare cerimonia, nel corso della quale si svolgeva una caccia al toro;
successivamente il sangue dell’animale sgozzato veniva bevuto da tutti i
presenti, in una specie di comunione rituale.
Tutti questi ambiti mitografici sfiorano solo il problema
del legame simbolico tra sangue, rose, Luce e mondo della visione interiore nel
nostro testo gnostico, una tematica a suo tempo più o meno consapevolmente
ripresa nelle sequenze finali del
Faust
di Goethe: in mezzo ai vaneggiamenti di Mefistofele un coro di Angeli avanza
spargendo rose, «luminose rose» che effondono il loro profumo, quasi a liberare
lo splendore in esse racchiuso
. Le rose nel poema di
Goethe «recano il paradiso», stigma della sconfitta di Mefistofele e di un
conseguimento celestiale che parla un linguaggio vero e visionario nell’«etere
limpido» attraverso l’eternità dei mondi
.
L’argomento profetologico ha quindi una funzione centrale in
questo contesto: la rosa, simbolo ematico nel quale è celata la Luce iniziale,
è anche il dono carismatico con cui raggiungere l’universo della visione
interiore. Le rose dello Zoroastro «geoponico» effigiano il risveglio
palingenetico, la Luce permeante la mente del Profeta eletto. Una situazione
per certi versi analoga, dove alle rose si sono sostituiti i rubini, si
ripresenta nelle tradizioni legate a Khi
ḍr,
una figura chiave della profetologia islamica
.
Dal sincretismo islamico-indico deriva il ciclo leggendario
del principe Ma
ḥbūb, singolare personaggio legato
alla manifestazione di Khi
ḍr.
Uno di questi racconti – riportato da Simone Cristoforetti – narra di Ma
ḥbūb
che, tuffatosi nel mare, vi scopre fluttuare un fiume di rubini. Risalendo la
corrente giunge ad un magnifico giardino, nel quale si erge un grande palazzo.
In una stanza dell’edificio egli vede le gocce di sangue che stillano da una
testa mozzata trasformarsi in rubini, gli stessi che attraverso un condotto
sotterraneo raggiungono il mare. Dodici
perī,
le
parīg, le «streghe»
o «fate», esseri sovrannaturali delle tradizioni medio-persiane, riuniscono la
testa al corpo decapitato e danzando provocano una epifania luminosa; allora
sorge dal pavimento Khi
ḍr,
avvolto in una veste di splendore
. Khi
ḍr sembra in qualche modo
effigiare l’unione di due differenti motivi gnostici: il primo è l’idea d'un
᾽Αρχάνθρωπος originario, l’Anima luminosa frantumata nei singoli
σώματα,
mentre il secondo è l’immagine dell’Adamo-Luce (maschile o femminile a seconda
dei casi) che suscita l’amore e la concupiscenza nelle potenze archontiche; il
desiderio luminoso effuso dalle potenze oscure genera, in differenti modalità
di esistenza, differenti ordini di realtà. Così Eros, creatura androgina,
rappresenta un primo allontanamento dalle vicende mitiche del
πλήρωμα iniziale: nato dal desiderio della Pronoia sparso sulla terra, Eros affiora
come Khi
ḍr dal sottosuolo e
sarà a sua volta al centro di una vicenda di caduta.
La gemma, come il fiore, racchiude la potenza del sangue,
cioè il potere luminoso e profetico. Questo simbolismo, che esprime
efficacemente la teoria gnostica, secondo cui l’Anima è essenza divina decaduta
e racchiusa in modalità e gradi di perfezione diversi nella
κτίσις malvagia, nel caso delle tradizioni su Zoroastro e Khi
ḍr diventa il segno dell’investitura e della facoltà
profetiche, in una prospettiva che oggi definiremmo «politica»
.